Uno degli aspetti più controversi in ambito di convivenza ovvero unioni civili e relazioni more uxorio, è rappresentato da quanto segue.
Cioè:
Come si risolvono le questioni sulle somme prestate da un partner all'altro (oppure elargite) e poi richieste indietro, a relazione finita?
La restituzione spetta oppure no ?
La ragione del dubbio risiede, come al solito, nella difficoltà di qualificare esattamente il rapporto, la relazione che, nonostante le recenti modifiche in materia, non è assimilabile al rapporto che si instaura a seguito di matrimonio.
Nell'ambito di quest'ultimo tipo di relazione qualunque forma di "prestito" sarebbe considerata "liberalità" cioè donazione di denaro senza obbligo di restituzione.
La stessa cosa non è così consequenziale ed automatica nell'ambito di una convivenza dove la questione è più complessa proprio per la difficoltà di inquadrare il rapporto nello stesso contesto normativo che disciplina il matrimonio.
La circostanza dalla quale trae origine la questione è la stessa identica ma le conseguenze non lo sono.
Infatti, se si riflette un attimo, non sfuggirà che nella maggior parte dei casi, ciò che muove un compagno a prestare ovvero dare somme di denaro all'altro è l'amore, il sentimento, e quindi, lo "spirito gratuito", sia nel caso del matrimonio che nel caso della convivenza.
Quindi la logica spingerebbe a definire entrambe le ipotesi allo stesso modo, possibilmente applicando le stesse norme, ma non sempre i Giudici possono farlo o sono orientati bene nel farlo.
Per correttezza si aggiunge che nella prassi difficilmente uno dei coniugi, in caso di separazione, pretende la restituzione di una somma data all'altro per aiutarlo, ad esempio, ad uscire da una situazione di crisi finanziaria.
Cosa che invece sovente accade alla fine di una relazione di convivenza.
Cosa spinge nella pratica a non richiedere nel primo caso ed invece a farlo nel secondo ?
Per fornire una spiegazione bisognerebbe indagare aspetti psicologici ed emotivi difficilmente razionalizzabili.
Tuttavia sembra che nel primo caso è scontato fra i coniugi che non si faccia. Si discute su case, mobili, pertinenze, figli, amanti, cani ma di somme prestate difficilmente si discute.
Nel secondo caso, nei casi in cui un partner, finita la relazione, rivuole indietro la somma, per lo stesso è scontato che gli si restituisca quanto "prestato" come se la fine della relazione amorosa giustifichi la restituzione, quasi come la fine di un rapporto contrattuale giustifichi la conclusione di qualunque pendenza in corso.
Spesso infatti l'approccio alla risoluzione conciliativa di questioni come queste, per il professionista richiede proprio un'analisi iniziale e di premessa, logica/razionale di questo tipo, per poi strutturare la strategia sopra le caratteristiche proprie del caso specifico.
Nella maggior parte dei casi funziona. Anzi questo approccio è molto più funzionale che nel matrimonio dove pretese e obblighi si muovono in contesti emotivi e normativi che lasciano meno spazio alla logica e più all'intuito e all'empatia.
Venendo ad una recente questione Vi pongo l'esempio recentissimo di una pronuncia della Suprema Corte sul caso di una donna la quale, al termine di una relazione amorosa durata quattro anni, aveva convenuto in giudizio l’ex compagno per vederlo condannare alla restituzione di una somma, a lui prestata, di circa 20.000 eu.
La donna non aveva alcun titolo sul quale basare la richiesta e, quindi, ha chiesto in tutti e tre gradi di giudizio la stessa cosa.
- In via principale la condanna alla restituzione della somma prestata
- In via subordinata che venisse riconosciuto l'arricchimento senza causa del convenuto.
I giudici di merito, sia in primo grado sia in appello, rigettavano le domande di parte attrice perché dall'istruttoria (dall'assenza di prove documentali sopratutto) era risultato "lo spirito di liberalità" dal quale non discende obbligo di restituzione.
Quest’ultima, quindi, presentava ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso e confermato le sentenze dei giudici di grado inferiore.
In sostanza in casi come questi, i Giudici prescindono dalla qualificazione del rapporto, e ritengono che l'attrice debba provare un contratto di mutuo o qualcos'altro di simile.
La partner avrebbe dovuto dimostrare oltre alla consegna della somma prestata
anche il titolo (il contratto) dal quale derivava l'obbligo di controparte alla restituzione.
In alternativa avrebbe dovuto dimostrare, - ad esempio con testimoni, dichiarazioni private, lettere, mail etc - che i partner avevano convenuto la restituzione della somma e che, viceversa, la non restituzione risultava assolutamente ingiustificata, viste le condizioni concrete.
Ha anche fatto l'errore della richiesta in subordine.
Infatti si consiglia, vivamente e viste le chiare e univoche direttive fornite dalla Cassazione in proposito, di non chiedere MAI in subordine la restituzione per "indebito arricchimento".
Questa è inutile e controproducente in quanto, il fatto stesso di proporla manifesta il remoto dubbio che il partner "debitore" non ha l'obbligo della restituzione.
In conclusione, non è assolutamente facile ottenere la restituzione della somma prestata tra partner conviventi come non lo è in nessun altro caso di relazione (d'affari o d'amicizia) in cui non vi è prova documentale.
Eppure si può ottenere con molta cautela, tenendo conto della natura del rapporto e delle circostanze del caso, che non giustificano che una parte trattenga senza causa il denaro indiscutibilmente ricevuto dall'altra.
Aggiungo che senz'altro é più semplice trovare un accordo in ambito conciliativo e mediatizio piuttosto che in giudizio.
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